E’ la letteratura o, semplificando di molto, la “narrazione delle cose” a segnare il passo dei tempi che mutano. Quello che una volta, per i nostri nonni, era il “pallone“, inteso come gioco, sport, svago, appartenenza territoriale e anche veicolo di fantasia con punte di contatto tra favola e realtà, oggi viene definito “calcio”: si è passati dalla fabbrica dei sogni ad una vera e propria industria piena di contraddizioni.
Come nasce il football
Il football nacque alle fine del 1800 e, come un virus, si diffuse sui porti dove i marinai inglesi inscenavano una strana competizione che poi, via via, partendo dai moli, trovò regolamenti, campi e tornei organizzati con il solo scopo delle squadre di dimostrare agli avversari di essere i più forti. Per questo motivo i ricchi (che storicamente non amano perdere, ed ecco perché un povero come Maradona che diventa Re dà fastidio ai potenti, ma questa è un’altra storia) – soprattutto in Inghilterra – iniziarono ad inquinare la competizione assoldando i migliori attraverso sostanziose ricompense sottobanco. Nacque così la necessità del “professionismo”. I facoltosi presidenti, da quel momento in poi, avevano un solo obiettivo: vincere. Per far quadrare i conti c’era tempo. In Italia, per avere un primo “codice” relativo al trasferimento dei giocatori – oggi definito calciomercato – bisogna aspettare il 1926 quando spunta la separazione tra “dilettanti” e “non-dilettanti”.
Evoluzione dei club di calcio
Contestualmente fu eliminato il vincolo provinciale: i giocatori iniziarono a spostarsi dove offrivano paghe più alte. In relazione agli stranieri, invece, il blocco era molto rigido. Il fascismo, del resto, ispirava idee nazionaliste. Alcuni club, però, in alcuni casi tesseravano i famosi “oriundi” per aggirare il problema. Se inizialmente i club erano “associazioni” pur con – in alcuni casi – importanti risorse economiche, nel 1966 passarono al “rango” di società di capitali con possibilità di generare lucro, ma con il vincolo di destinazione sportiva dei proventi. Il pallone aveva un grande seguito popolare ed è per questo che molti personaggi in cerca di fama – spesso per fini propagandistico-politici o per esigenze commerciali – ricoprivano ruoli dirigenziali. Ai conti non sempre si badava e i deficit significativi erano scontati perché a quei tempi erano soprattutto i botteghini a rappresentare la fonte primaria degli introiti insieme alle sponsorizzazioni e ai “regali” dei mecenati di turno. I calciatori erano, di fatto e senza limiti di tempo, “proprietà” dei club. Questi ultimi decidevano quando e se cedere i propri tesserati.
Il calcio e l’Italia degli anni ’80
Con la legge 91 del 1981, invece, i contratti dei calciatori prevedevano una durata limitata. Tra i nuovi “Istituti” l’indennità di preparazione da riconoscere ai club quando un giocatore veniva ceduto. Resisteva, contestualmente, l’idea romantica di uno sport che non doveva avere finalità di lucro pur garantendo le spese necessarie per reggere il sistema. L’Italia negli anni ’80 era il paese più ambito per i calciatori: la Serie A non a caso annoverava i migliori giocatori del mondo perché considerata il torneo più bello ed affascinante in assoluto. E perché evidentemente garantiva ingaggi più consistenti. Non va dimenticato che il PIL italiano in quegli anni aumentò del 18% superando addirittura la Gran Bretagna: il Belpaese era la quinta nazione più ricca del mondo, dopo Stati Uniti, Giappone, Germania e Francia. I ricchi industriali come Agnelli, Berlusconi, Moratti e tanti altri, iniziarono a sfidarsi nel gioco più amato dagli italiani.
Il cambio di passo degli anni ’90 e le nuove regole
Si arriva così agli anni ’90 quando il pallone diventa calcio a tutti gli effetti. Le radioline e le partite dal vivo vissute allo stadio, iniziano gradualmente a cedere il passo alle televisioni a pagamento. Nel 1991 l’Italia da quinta passa a quarta potenza mondiale davanti a Francia e Gran Bretagna: famoso il rapporto del Ministro degli Esteri Gianni De Michelis inviato al presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Le società di calcio più importanti costruiscono squadre fantastiche grazie al supporto delle banche e dei soldi iniettati nel circuito da ricchi presidenti (e non mancano artifizi contabili poi acclarati). Inizia ad aprirsi il dorato mondo dei diritti televisivi. Poi l’ulteriore spartiacque nel 1996 con la “sentenza Bosman” che chiude l’era dei “club titolari a vita dei cartellini dei calciatori”. Ogni calciatore europeo da quel momento ha il diritto, al termine di un contratto, di trasferirsi in altri club dell’Unione Europea senza dover riconoscere nulla. Fino a quel tempo resiste il limite massimo di tre stranieri per ogni squadra, ma con la “libera circolazione” questo tetto si sgretola. Per gli extracomunitari, invece, nuove regole e limiti. Arriva inoltre l’introduzione del “fine di lucro”. I club iniziano a fatturare cifre enormi, gli ingaggi e i cartellini dei calciatori crescono in maniera esponenziale.
Logica vorrebbe che con questo flusso di danaro i club dovevano essere solidi e con bilanci cristallini. Niente di tutto ciò. L’ulteriore mazzata per il “sistema” arriva con il consolidamento della figura dell’agente dei calciatori e degli intermediari – che acquisiscono sempre più potere – e che generano costi altissimi per i club. I giocatori diventano in molti casi “aziende” a se stanti e così anche il “gioco di squadra” spesso ne risente. Famose le parole di Maurizio Sarri su Cristiano Ronaldo ai tempi della Juventus: “Non è semplice la sua gestione sotto tutti i punti di vista perché Ronaldo è una multinazionale, ha degli interessi personali e bisogna farli coincidere con quelli della squadra. Mi ritengo più bravo a fare l’allenatore che il gestore. Negli ultimi anni sento parlare troppo dei singoli e poco delle squadre”.
Gli anni duemila del calcio
Con lo sviluppo dei social, dagli inizi del 2000 ad oggi, i club hanno sviluppato anche il marketing e la vendita del materiale ufficiale in tutto il mondo. Ma non è bastato nemmeno il “decreto salva calcio” del 2003 con il quale ai club viene concesso di pagare i propri debiti in 10 anni, con l’obbligo di ricapitalizzazioni immediate. Non tutte le società, però, hanno alle spalle multinazionali in grado di immettere nuovi liquidi. Dunque ne risente l’equilibrio complessivo e, di conseguenza, lo spettacolo. Poche squadre forti e tante di medio livello. La Premier League inglese, invece, ha fatto il procedimento inverso: redistribuzione delle risorse per favorire lo spettacolo della competizione e dunque attirare investitori. La naturale conseguenza? Quello inglese è il campionato più ambito e seguito al mondo.
Glia anni recenti, il pallone che divide in grandi e piccoli club
Dal 2009, inoltre, viene introdotto inoltre il Fair Play Finanziario, ovvero uno strumento per calmierare le spese folli dei club. Il concetto è semplice: si può spendere in base alle proprie possibilità. Risultato? Vengono punite le squadre più piccole, mentre ai ricconi si concedono deroghe. Ecco perché i top club hanno provato di recente ad organizzare una SuperLega: un torneo riservato ai “migliori”, a quelli più ricchi con il seguito più ampio, per dividersi i soldi delle tv e degli sponsor senza il filtro di UEFA, FIFA ecc. ecc. e senza dover sentire il peso della redistribuzione solidale dei fondi ai club più piccoli. L’operazione, per ora, è miseramente fallita, ma siamo solo all’inizio di una nuova transizione: prima da fabbrica di sogni a industria delle contraddizioni, poi a vezzo per milionari. Con il rischio che il pallone di periferia perda definitivamente il suo ruolo sociale per diventare al massimo serbatoio residuale di eventuali talenti da girare ai club più facoltosi.
Il Covid – con i danni che ha generato – ha dato solo la bordata finale ad un “sistema” che in realtà era già al collasso, ma l’unico vaccino possibile è rivedere i conti, tornare ad una realtà sostenibile, investire nei settori giovanili, far abbassare le pretese ai calciatori e ai loro agenti, e ridisegnare la dimensione di gioco, di sogno, pur in un contesto globale di competitività economico-finanziaria. Si incentivi la produttività, i premi e la meritocrazia anche tra i calciatori. I club tornino ad essere veicolo di passione. Altro che vacche da spremere in un allevamento intensivo. A prescindere, come disse Maradona, “la pelota no se mancha”. Ma gli uomini che sfruttano la sfera magica sono quasi tutti pieni di “fango”.