Una comunione che crea comunità
Invitata da don Lino Modesto a Grumo Appula, nel Centro “Don Franco Vitucci” della Parrocchia Santa Maria di Monteverde, ho avuto occasione di condividere alcune riflessioni durante la celebrazione eucaristica, sul tema della comunione. Ecco una traccia della mia seconda proposta. Per la prima, puoi cliccare qui. Per la terza, clicca qui.
Siamo tutti qui!
Prima lettura (At 16,22-34), Vangelo (Gv 16,5-11)
Paolo, davanti al soldato che sta per uccidersi, grida una frase molto bella: «Non farti del male: siamo tutti qui» (At 16,28). È una frase che nelle nostre comunità di fede dovremmo imparare sempre più a ripeterci. Non farti del male, noi siamo qui. Siamo tutti qui.
Stare insieme diventa una grande risorsa per affrontare le fatiche e le prove della vita. Anche Maria, sotto la croce del figlio, trovò la sua forza nella comunità che era lì presente.
Una comunità che sostiene
25Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. 26Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. 27Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. (Gv 19,25-27)
Stando al racconto di Giovanni, sotto la croce di Gesù c’era Maria, presentata per prima. Accanto a lei sua sorella, poi Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala. Un folto gruppo di discepole. Dovremmo imparare a chiamarle così, invece di usare il termine “donne”. Spesso si sente dire: “I discepoli e le donne”. Ma quelle non erano donne in generale, erano le discepole di Gesù.
Una comunità inclusiva
Perché Gesù aveva fatto una scelta controcorrente, quella di chiamare anche donne a divenire discepole. Al suo tempo le donne non potevano studiare la Torah o essere istruite nelle sinagoghe.
Gesù sceglie invece di aprire la sua comunità anche a loro. E non solo. Nella categoria delle persone “strane da chiamare”, nella comunità di Gesù troviamo anche esattori delle tasse, come Levi.
Il regno di Dio in azione
Gesù sceglie di formare comunità. La comunità è la forma della sua idea di regno di Dio. Cosa è il regno di Dio? Non è certo un castelletto con tanto di bandiera. Il regno di Dio è la situazione concreta nella quale Dio regna nelle nostre vite, ossia è il tempo della nostra umanizzazione.
Quando diventiamo persone più autentiche e vere, siamo nel regno di Dio.
Ora, Gesù individua nella comunità il modo più adatto per mostrare il regno di Dio in azione. La comunità diventa allora lo spazio della nostra umanizzazione, perché ci riconosciamo come persone, forse ferite e limitate, ma sempre e comunque amate profondamente da Dio così come siamo.
Un amore trasformante
È infatti l’amore l’unico motore capace di cambiare i cuori. Gesù ce lo mostra ampiamente nella sua vita. Incontra le persone e le cambia col suo amore. Basti pensare a Zaccheo (Lc 19). Gesù non gli chiede di cambiare. Gesù lo ama così come è. Ed è quell’amore che gli cambia il cuore e lo apre alla comunione.
Qualcuno potrebbe dire: Ma Gesù è andato via?
Il vangelo che abbiamo ascoltato oggi ci aiuta a trovare una risposta a questa angoscia. Gesù è morto ed è entrato nell’abbraccio eterno di Dio come vivente, ossia è risorto. E, proprio per questo, può condividere con noi il suo Spirito vitale.
In quello Spirito e grazie a quello Spirito, noi continuiamo a fare comunità. Ma fare comunità non significa solo stare insieme. Anche alla fermata del treno siamo insieme a molta gente, ma magari non conosciamo nessuno.
La comunità, lo dicevamo nella prima riflessione, è quella che condivide l’idea del Nord. Coltiva insomma una formazione teologica, ossia riflette insieme sul vero volto di Dio e non smette di cercarlo.
Capaci di responsabilità
Una comunità è quella che si confronta sulle idee, che matura insieme le decisioni più importanti e anche le piccole. Oggi stiamo riscoprendo la sinodalità, il fare insieme la strada. La sinodalità esige il consenso condiviso.
E quel consenso si matura sentendosi responsabili, insieme. Responsabili: abili nel rispondere a una chiamata. Ma a quale chiamata siamo invitate e invitati a rispondere? A quella a essere discepole e discepoli.
Per scoprire come entrare davvero nel discepolato di Gesù, possiamo farci aiutare da un altro personaggio, presente sotto la croce di Gesù: il discepolo amato. Noi lo identifichiamo con Giovanni, ma probabilmente l’evangelista non voleva tanto ritrarsi sotto la croce, quanto piuttosto tratteggiare il volto del discepolo ideale.
Discepole e discepoli amati
Infatti il discepolo amato da Gesù non è tanto una persona concreta, quanto un modo di essere discepoli, uno stile da assumere.
Cosa fa il discepolo amato?
È il discepolo dell’intimità, che poggia il suo capo sul petto di Gesù durante l’ultima cena (Gv 13,23). Essere discepole e discepoli amati significa coltivare l’intimità con il Dio che Gesù ci ha fatto conoscere, un Dio chiamato Padre e presentato da Gesù coi tratti di una madre.
È il discepolo che resta sotto la croce con Maria e le altre discepole (Gv 19,26). Riconosce dunque una comunità polimorfa e ci resta anche nel momento del fallimento. Siamo discepole e discepoli amati quando facciamo altrettanto, accogliendo la diversità come dono e risorsa, anche nel tempo della crisi
È il discepolo che corre verso la tomba vuota insieme a Pietro (Gv 20,2), e sa aspettarlo perché rispetta il ritmo di ciascuna persona. Siamo discepole e discepoli amati quando stiamo al passo dell’ultimo in comunità, e quando prendiamo consapevolezza del nostro limite senza scoraggiarci.
È il discepolo che riconosce Gesù risorto quando appare sulle rive del lago (Gv 21,7). Siamo discepole e discepoli amati quando impariamo a riconoscere la presenza del Risorto nelle pieghe e nelle piaghe della nostra vita quotidiana.
È il discepolo di cui Pietro chiederà la sorte finale (Gv 21,20), per sentirsi rispondere:
22Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi. (Gv 21,22)
Siamo discepole e discepoli amati quando ci mettiamo in cammino insieme, ma rispettiamo i cammini degli altri, senza confrontarci in maniera conflittuale con loro.
Come l’alloro
Il vostro parroco don Lino mi ha raccontato che il titolo “Maria di Monteverde” si deve probabilmente al fatto che anticamente in questo luogo collinare c’era un boschetto di alloro, pianta sempreverde. Nella vostra bella chiesetta secentesca, c’è un affresco che ritrae Maria con accanto la scritta parziale “Lau…”. È probabilmente una conferma del riferimento all’alloro, il laurus nobilis.
Ebbene, mi sono informata un po’ e ho scoperto che l’alloro è una pianta dal portamento arbustivo che ama fare siepi, ama la compagnia di altre piante, ama fare comunità. E mi sembra una meravigliosa immagine della comunione che siete invitate e invitati a vivere tra voi, per diventare una comunità che, come l’alloro, è bella da vedere e che ha un buon profumo. Non però il profumo dell’alloro, ma il profumo del vangelo.