Quanti simboli riveste il cavallo? Un’infinità. E in questa infinità regna l’ambivalenza, perché il cavallo sembra incarnare tutto e il contrario di tutto. Napoli non è da meno e le leggende al riguardo piovono, a giudicare dal numero impressionante di autori antichi che le hanno riferite, tra i quali l’anonimo autore trecentesco de “La cronaca di Partenope”, e tutti citati dal massimo cultore delle tradizioni napoletane, Roberto De Simone. Il racconto è una matassa non facile da dipanare, io ci provo con la speranza di non creare “confusione mentale”.
Che il cavallo incarni l’indomabilità dei napoletani lo dimostrano le narrazioni riguardanti Corrado IV che, dopo aver finalmente vinto la lunga resistenza dei napoletani, appena entrato in città, per sfregio fece imbrigliare il prezioso cavallo sfrenato di bronzo che si ergeva nel cuore di Napoli e di cui parlerò dopo. Carlo d’Angiò a sua volta, meravigliandosi che la città avesse ben due stemmi raffiguranti cavalli sfrenati ossia senza morso, fece apporre sui muri questa scritta “Il Re giusto di Napoli doma questo cavallo isfrenato e a li omini senza freno li apparecchia li redine del freno”
Il cavallo nero e il cavallo d’oro sugli stemmi di due sedili
Non è certo un caso se ben due sedili fra i più importanti, Nilo (o Nido) e Porta Capuana, sono rappresentati da due cavalli sbrigliati uno nero rampante e l’altro dorato in movimento. Il cavallo nero incarna la notte, gli inferi della dea Ecate alla quale era sacro questo animale; il cavallo dorato (o bianco), attaccato al carro del dio Apollo è portatore di luce. Emblematica è la posizione dei due sedili che, per chi arriva da mare, sono situati l’uno, Porta Capuana, a destra e l’altro, Nilo, a sinistra. La stessa posizione che i due astri occupano nell’iconografia della Madonna di Piedigrotta (si veda l’immagine) la cui chiesa è situata presso la presunta tomba di Virgilio, Virgilio che è coinvolto in quasi tutti i miti napoletani.
Il cavallo miracoloso di Virgilio
Il cavallo di bronzo che Corrado IV fece imbrigliare si sarebbe trovato dove ora si erge la guglia di san Gennaro nei pressi dell’attuale duomo. Il popolo ci portava i cavalli ammalati ornati di coroncine di pane e di ghirlande, e li faceva girare tre volte intorno alla statua. E i cavalli guarivano. Temendo di perdere le loro prerogative, i maniscalchi gelosi squarciarono il ventre del simulacro, che così perse i suoi poteri. L’altra versione della storia narra invece che nel Trecento fu un cardinale che ordinò di fare a pezzi il bronzo per debellare il rito pagano, che oltraggiosamente persisteva proprio nei pressi del Duomo.
Correva l’anno 1322. Il corpo del cavallo fu fuso per forgiare le campane del duomo, che quando suonavano, qualcuno diceva udire un nitrito… La testa unita al collo non si riuscì a fonderla; un secolo dopo Diomede Carafa, grande amico di Alfonso d’Aragona, ne entrò in possesso e la collocò nel cortile del suo palazzo, che il popolo da allora chiamò “il palazzo del cavallo”. Nel 1809, la testa (oggi attribuita a Donatello) fu portata nel museo borbonico, dove tuttora è conservata. Nel cortile fu lasciata una copia di terracotta, ancora in loco, mentre è scomparsa l’epigrafe in latino che l’accompagnava e che recitava:
Quale sia stata la nobiltà e la grandezza del corpo / La testa superstite mostra / Un barbaro m’impose il morso /La superstizione e l’avidità mi fecero morire / Il rimpianto dei buoni accresce il mio valore / Qui vedi la testa / Le campane del Duomo conservano il mio corpo / Con me perì lo stemma della città (…)
Il trasferimento del culto
Per meglio annientare il rito del cavallo che esorcizzava non solo le malattie degli animali ma anche la loro sterilità, si pensò di trasferire “le competenze” nelle mani di un santo importato dagli Angioini, saint Éloi ovvero sant’Eligio, “sant’Aloia” per i napoletani, la cui chiesa si trova nella zona mercato. Lì ogni primo dicembre si recavano i partenopei con i loro cavalli, li sferravano sul sagrato della chiesa e appendevano i ferri tolti sulla porta per scongiurare le malattie degli arti, che all’epoca (come oggi) erano frequenti e temutissime, poiché rendevano i cavalli inservibili. Ma dopo qualche decennio, fu sant’Antonio Abate a recuperare il rito, compresi gli scaramantici tre giri intorno alla chiesa eponima, giri che si facevano compiere ai cavalli addobbati di taralli di pane e ghirlande, proprio come ai tempi del cavallo di Virgilio. Con il passare del tempo, la cerimonia si estese a tutti gli animali, e poi, fino agli anni 60-70, addirittura ai veicoli a motore, poiché il cavallo nell’immaginario collettivo evocava il viaggio. Per questa ragione, Roberto De Simone ne “Il segno di Virgilio” scrive: “il rito del cavallo di Virgilio, per essere in parte sopravvissuto fino ad oggi (anni 80), deve essere stato uno dei più radicati e dei più funzionali della cultura popolare”
La forza simbolica del cavallo a Napoli (e altrove)
I simboli incarnati dal cavallo non si riducono alla sola ambivalenza luce-cavallo bianco/tenebre-cavallo nero. Indipendentemente dal colore del manto, la maggior parte delle credenze religiose pagane risiedevano nel carattere furente del cavallo, allegoria della forza procreatrice e anche distruttrice della natura. Ecco quindi che, lo si invocava per esorcizzare i terremoti in qualità di figlio di Nettuno “ennosigaios”, scuotitore del suolo o agitatore del mare (è interessante notare a tal proposito che in napoletano i “cavalloni” sono le onde del mare in tempesta). Ma il cavallo era coinvolto anche in riti propiziatori in onore di Demetra, la dea madre fecondatrice della terra, e in quelli dedicati al dio arcaico romano Consus, preposto alla conservazione del grano, e identificato poi con Nettuno.
A Roma (e sicuramente anche a Napoli) il 15 dicembre e il 26 agosto, giorni delle “Consualia” dedicate a Consus/Nettuno, si facevano sfilare i cavalli adorni di pani e ghirlande, proprio come nella festa di sant’Antonio Abate e nel rito svolto intorno al presunto cavallo di bronzo, che poi non era lontano dal tempio di Nettuno… La forza purificatrice e esorcistica del cavallo poi, era esaltata il 15 ottobre, giorno dell’Equus October quando si uccideva a colpi di giavellotto uno dei cavalli del carro vincente, dopo averlo lasciato correre in libertà. La testa e la coda della vittima immolata venivano tagliate, mentre il sangue che ne sgorgava era consegnato alle Vestali per riti purificatori (non descrivo l’intero rito per ragioni di spazio).
Dopo l’avvento del Cristianesimo, persistevano i ricordi di queste cerimonie, tant’è vero che nacque la leggenda del miracolo di S. Spiridione nel Settentrione e di S. Ciriaco in Irpinia, miracolo che concentrava in sé tutta l’ambivalenza delle varie credenze: a due cavalli, uno bianco e uno nero, ai quali erano state recise la testa e la coda, S. Spiridione / Ciriaco riattaccarono la testa e la coda del cavallo nero a quello bianco e viceversa, a imperitura dimostrazione del prodigio.
L’origine dei poteri di Virgilio sui cavalli.
Il sommo poeta era, secondo il suo biografo Donato (IV secolo) rinomato per il suo potere di guarire i cavalli, e Donato racconta che l’imperatore Augusto, grato a Virgilio di avergli sanato diversi cavalli, gli regalò dei “pani”. I pani con i quali si adornavano i cavalli che si facevano girare intorno alla sua scultura bronzea miracolosa? Che Virgilio amasse teneramente i cavalli lo dimostrano queste parole che scrisse nel libro III delle Georgiche : “questo stesso cavallo, quando appesantito dalla malattia o già indebolito dagli anni, non potrà più servirti lascialo nella stalla e sii indulgente con la sua vecchiaia che non lo disonora”. E infine ricordiamo che il poeta morì un 15 ottobre ovvero nelle Idi di ottobre, che Augusto volle consacrare al sommo poeta… E quel giorno era lo stesso dell’Equus October…
2 Commenti
Come sempre, un favoloso racconto di Maria Franchini! Complimenti.
Complimemti. Gran bel lavoro. Cercherò i tuoi libri. Sembri una studiosa seria e non improvvisata come tanti che si limitano a smanettare sul web.
Sergii